FIGURE FEMINILI DOMENICANE : Diana, la sete dell'assoluto - Cecilia, la freschezza del ricordo

 

Nel coro del monastero di S. Agnese a Bologna, è conservato un dipinto che ritrae Diana e Cecilia insieme ad una terza sorella, la beata Amata della quale si sa ben poco. Tre giovani donne : sembrerebbero alte e sottili, con un portamento naturalmente elegante, accentuato dalla sobria bellezza dell’abito domenicano.
Nel quadro Diana è al centro; alla sua destra (e quindi alla sinistra del dipinto), Cecilia.
Diana è imponente : la sua figura sembra scaturire, svettante, dal ricco panneggio che l’abito forma intorno ai piedi e alle caviglie; con gesto solenne e aggraziato ad un tempo, sorregge un libro (la Regola?). Il viso è composto, forse più nobile e austero che bello, per lo meno ad un primo esame. Di lei abbiamo però due descrizioni molto suggestive : la prima di una studiosa francese, Marguerite Aron che, presentandola come “une jeune fille de 18 à 21 ans”, dice di lei : “una energia indomabile abitava in quel corpo femminile dalle linee eleganti e in quella testolina aristocratica”, (M ARON, Un animateur de la jeunesse au XIII° siècle, Paris 1930, p.138); e niente meno che L.A. Muratori nel 16° volume del Rerum Italicarum Scriptores, si esprime così :“Era Diana una fanciulla nata da una famiglia famosa presso i Bolognesi per nobiltà e per ricchezza […]”, facendo poi seguire l’elenco dei parenti più illustri e delle alte e altissime cariche da quelli ricoperte. Il casato degli Andalò deriva il suo nome da quello del padre di Diana, Andrea di Lovello, conosciuto come Andreolo o anche Andalò, senatore a Milano, Piacenza e Genova, dove un figlio suo e fratello quindi di Diana, Brancaleone, fu anche podestà; quest’ultimo lo ritroviamo senatore a Roma. Un altro fratello, o meglio fratellastro, Loderingo o Lodrisio compare in quella specie di “almanacco di Ghota” del XIII secolo che è la Divina Commedia, sistemato purtroppo all’Inferno, perché inviso a Dante che, nel XXIII canto (ipocriti) lo annovera tra i Frati gaudenti, ordine cavalleresco dei cavalieri di M.Vergine; in effetti è noto come glossatore, studioso del diritto romano dello Studio di Bologna.
Abbiamo con questi pochi riferimenti delineato l’ambiente familiare di Diana : di lei il Padre Paolo Vanzan o.p. dirà che “si era distinta fin dalla fanciullezza per la profonda intelligenza e grandezza d’animo (P. VANZAN o.p., Santità e amicizia, E.S.D. Bologna, 1993, p.26). Il Padre, le riconosce anche “un ottimo carattere […] grande sincerità e sensibilità […] un cuore battagliero e tuttavia mite, ma anche […] una volontà tenace nel conseguire il bene che si proponeva” (P. VANZAN, op.cit., p. 26). E il Padre asserisce ancora : “Diana era cresciuta nel suo tempo e nella sua famiglia, non rinunciando ai vantaggi che la sua famiglia era in grado di garantire” (op. cit. ibidem) Un milieu familiare, quindi, aristrocatico-opulento. Diana appartiene a quella che i Francesi, molto tempo dopo, avrebbero chiamato la “jeunesse dorée” della sua città : ella sembra percorrere entro certi limiti, il tipo della grande dama colta e raffinata delle corti rinascimentali. Donna del suo tempo, sa conciliare personalità, cultura e raffinatezza da un lato e slancio e abbandono in Dio dall’altro.
Parlare di Diana degli Andalò è riflettere sulla Bologna del XIII° secolo e non solo su Bologna. Bologna la dotta, sede dell’Alma Mater. Bologna la grassa, la ghiotta, sapientemente, mai banalmente, godereccia, la città che può essere assunta a campione di un benessere e di un malessere che si avvertono in tutta la cristianità del tempo. Sono le avvisaglie (e nel processo storico le “avvisaglie” possono durare anni ed anni, a volte anche secoli) di un confronto destinato a divenire scontro, come aveva preconizzato Cristo. Queste “avvisaglie”, nella fattispecie, si fanno avvertire già fin dall’XI secolo : le mutate condizioni di vita (certo non per tutti), hanno permesso all’Europa Occidentale e Centrale (più particolarmente all’Italia) di cominciare a rialzare la testa dopo le “tenebre” (non sempre tali, a volte singolarmente luminose) di un Alto Medio Evo che le ha condotte dalle cosiddette invasioni barbariche, attraverso lo spettro dell’Islam incombente ad Est e ad Ovest e particolarmente pericoloso incarnato nella pirateria saracena dominatrice del Mediterraneo, alla rinascita della civiltà cittadina sia che si tratti di Repubbliche marinare, sia che si tratti di Comuni di terraferma.
Questo significa ripresa di traffici, fine dell’economia chiusa, denaro che torna a circolare, ricchezza che produce agi, comodità benessere lussuoso.
Ma, dicevamo, di contro e accanto al benessere il malessere (e non ci riferiamo solo alla persistente miseria) : il malessere che deriva dalla consapevolezza via, via sempre più sicura della forbice che si va aprendo tra la visione evangelica dell’esistenza e quella che per molti è la quotidianità opulenta e che lentamente dà origine ad un malcontento che pervade l’Europa da Est a Ovest. Poco dopo l’anno Mille un multiforme movimento di evangelismo aveva cominciato ad agitare la Cristianità. Dice il Tilliette che “l’evangelismo è uno stato d’animo piuttosto che un corpus dottrinale”(Cahiers de Fanjeaux, 34, 1999). Tutti i movimenti evangelici che si sono succeduti nel corso dei secoli sono stati d’accordo su un punto che rappresenta la loro radice comune : la povertà volontaria, il ritorno e il messaggio delle origini. “Tutti radicavano la loro contestazione negli anatemi che Gesù lanciava contro la ricchezza”. (M. ROQUEBERT, S. Domenico trad. it., Ed Paoline, Alba 2005, p.27) Di qui la riscoperta del fascino della vita apostolica, incarnatasi in esperienze diverse, talora tanto radicali da rovesciarsi in forme ereticali, tra le più pericolose e inaccettabili, in altri casi coincidenti semplicemente con la radicalità (non il radicalismo) del messaggio di Cristo.
Tutta l’Europa (o quasi) conosce questo “stato d’animo” che conduce le anime più pensose e consapevoli, più naturalmente evangeliche ad avvertire il sordo malessere.
Lo avverte Bologna la dotta, la grassa : possiamo avere uno spaccato di vita bolognese in questo momento nevralgico del mutamento in corso, riflettendo sull’incontro dei Bolognesi col neo-nato Ordine dei Predicatori. Più particolarmente possiamo “leggere questo incontro in Diana degli Andalò. Abbiamo già visto come lo studioso avverte : “Diana era cresciuta nel suo tempo.” Aveva incontrato i primi Frati Predicatori all’età di 17 anni. Era già in possesso di una formazione culturale tale da permetterle di apprezzare la ricchezza dottrinale dei nuovi predicatori. Diana, a quanto si tramanda conosce il latino e ha una buona cultura letteraria. Per le sue doti intellettuali e l’opulenza della sua condizione le si presenta l’offerta allettante di una spensierata vita mondana. Ma nel dicembre del 1218 avviene il primo dei grandi incontri della sua vita : giunge a Bologna maestro Reginaldo, il domenicano che la Vergine ha unto con l’olio degli infermi, guarendolo. Reginaldo era stato decano di St. Aignan la celebre collegiata di Orlèans : uomo di grande fama, dotto, illustre per dignità e nobili natali; per 15 anni aveva retto a Parigi la facoltà di diritto canonico. Veniva presentato come uomo non solo dotto, ma molto elegante e raffinato. Si reca a Roma nel 1218 insieme al suo vescovo e cade ammalato molto gravemente. Mentre è in fin di vita lo visitano, ciascuno a suo modo, Domenico in carne e ossa e la Vergine in visione : il primo lo esorta ad entrare nel suo ordine, la Seconda gli mostra l’abito domenicano. Impossibile evidentemente resistere alla Beata Vergine e a S. Domenico coalizzati. Così Reginaldo, dopo aver fatto la sua professione domenicana ed essere andato in Terra Santa per mantenere una promessa fatta al suo vescovo, al ritorno si reca a Bologna e “si dà subito totalmente alla predicazione” (Giordano). Il Vicaire è convinto che Reginaldo avesse da tempo cominciato ad avvertire il suo precedente tenore di vita “ricercato e raffinato” con un senso di rimorso. (H. VICAIRE, Storia di S. Domenico, trad. it. Alba, 1959, p.366) Al ritorno dal pellegrinaggio il brillante docente parigino è pronto per la missione che lo attende; Reginaldo incarna, ci sembra, come pochi altri la splendida, geniale intuizione di Domenico nella costruzione del suo Ordine finalizzato ad un’evangelizzazione particolarmente ardua in quella peculiare situazione storica. Diamo la parola allo storico M. Roquebert che sintetizza così il modello di Domenico, modello “che prima di lui non esisteva quello del religioso che unisce l’ideale della vita evangelica, l’eloquenza del predicatore e la più alta scienza filosofica e teologica” (M. ROQUEBERT, op. cit., p.8). Un modello, dirà ancora, il cui stile di vita sarebbe consistito in una povertà così radicalizzata che avrebbe dovuto accontentarsi della mendicità; ma questa povertà non avrebbe mascherato un pensiero mediocre. Osserva più oltre il Roquebert : “per essere efficace la predicazione deve fondarsi su basi solide […] ; la necessità di studiare diventerà [per Domenico] essenziale per i suoi fratelli, vuole che siano sapienti […]. Scienza e povertà: Povertà, ma scienza” (M. ROQUEBERT, op. cit., p.194). Reginaldo ha voltato le spalle al suo brillante passato : è si può dire, un neo-convertito che si incontra con Diana, in una Bologna “tutta in fermento per l’eloquenza del predicatore”, paragonato a “fuoco travolgente”, a fiaccola ardente, tutto gioioso per essersi liberato da una vita troppo umana, ed essersi totalmente dato al Vangelo. Un giorno Reginaldo ha parole particolarmente aspre verso la vanità delle cose del mondo; parole piene di forza che colpiscono Diana come se fossero rivolte a lei espressamente. Da quel momento Diana sente che giorno per giorno sta cambiando e chiede a Reginaldo negli incontri che ha con lui, di spiegarle con maggior chiarezza quale sia il nuovo genere di vita che egli propone. Da questo momento comincia in Diana l’esperienza di quella “sete dell’Assoluto” che altre anime hanno provato in epoche diverse, partendo dal riconoscimento del carattere effimero e in autentico del “relativo”. Lo aveva stupendamente espresso S. Agostino in una pagina celeberrima : “Ti ho gustato e ora ho fame di te” (Conf. X, 27). O con l’espressione ancora più famosa : “Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. Entrambi, Reginaldo e Diana, vivono questa inquietudine, questa ricerca di diverso appagamento : entrambi incontrano sul loro cammino la personalità incandescente di Domenico di Guzman, che Dante ha scolpito nella terzina del canto XII del Paradiso, v.v. 96-99,
“con dottrina e con volere insieme
con l’officio apostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme.”
Un torrente in piena, una forza della natura scatenata. Sapienza e determinazione insieme. Domenico riconosce in Reginaldo prima, in Diana poi, anime sorelle della sua, un po’ oscillanti ancora, da seguire e curare con quella tenerezza si direbbe materna che gli era propria : “le sue parole, piene di forza erano allo stesso tempo soavi, ponderate, ricche di luce, di pace di bontà”. (P: VANZAN o.p., op.cit., p.28).
Diana ha tutte le doti per essere veramente “figlia” di Domenico : ha cultura e determinazione e lo si vede nell’episodio del reperimento dei fondi per la costruzione del nuovo convento dei frati, essendo l’asilo della Mascarella divenuto assolutamente insufficiente. I Domenicani erano interessati a S. Nicolò delle Vigne, situato a sud della città, nel quartiere dell’abbazia di S. Procolo, zona decisamente più adatta, sia per la predicazione che per la costruzione di un vero e proprio convento. I diritti di proprietà sulla chiesa di S. Nicolò e sulla terra adiacente erano della famiglia di Diana. “Sembra che in un primo tempo l’anziano patrizio (Pietro di Lovello, nonno paterno di Diana) si dimostrasse molto riluttante a vendere l’area richiesta; ma c’ere Diana, la nipotina certo molto amata” fine diplomatica e favorevole ad oltranza alla causa dei Domenicani. (G. CAMBRIA, Diana degli Andalò, Bologna, 1972, p.20).
Intanto Diana trascorre le sue giornate in modo sempre più coerente con la nuova scelta di vita : si alza per tempo e rimane in rigoroso silenzio e in orazione fino al desinare, dando un esempio suggestivo a gruppi di amiche che si radunano presso di lei. Ma non può accontentarsi di questo (la sete dell’Assoluto), vuole vivere la vita contemplativa in un monastero domenicano e non accetta di aspettare oltre. Questa bellissima “fretta” resterà uno dei tratti distintivi della sua spiritualità, che come diremo in seguito, dovrà talvolta moderare Giordano di Sassonia. Ma ora Diana apre il suo cuore a Domenico il quale, pur favorevole alla duplice proposta di Diana, entrare nell’Ordine e mettere a disposizione i fondi  per la costruzione del primo monastero domenicano a Bologna, si concede una pausa di riflessione. Per inciso, si direbbe che Diana “senta” che i suoi primi maestri e padri del suo “rinascere dall’alto” stanno per lasciarla : Reginaldo parte da Bologna per Parigi dove aiuterà la fondazione del convento di S: Giacomo e dove morirà nel febbraio del 1220. Domenico morirà la sera del 6 agosto 1221 : intanto, dopo aver pregato per ottenere che Dio lo illumini e dopo essersi consigliato con i confratelli, Domenico decide di realizzare il progetto del monastero come suggerito da Diana, anche a costo di ritardare la costruzione del convento maschile. Viene individuato il terreno che si ritiene adatto, ma si oppone il Vescovo, ritenendo che vi siano già abbastanza fondazioni in città o nelle immediate adiacenze : ma questa volta l’opposizione più dura e intransigente viene dalla famiglia di Diana; fra l’altro alcuni degli illustri parenti gravitano nell’area ghibellina. Il 22 luglio del ’21 Diana decide di forzare la mano : organizza una cavalcata e parte, circondata da un brillante seguito di dame bolognesi, dirigendosi verso Ronzano dove sorgeva un romitaggio delle Canonichesse di S. Marco di Mantova. Giuntavi, Diana entra da sola e arriva fin nel dormitorio dove alle monache che le si sono fatte incontro chiede di vestire l’abito religioso e immediatamente viene esaudita.
Possiamo su questo episodio fare due rapide riflessioni : prima di tutto ammirare ancora una volta la capacità di Diana (“indomita” la definisce il Vicaire) di valutare la situazione e di prendere decisioni; in quel momento è sola, morto nel ’20 Reginaldo, lontano, a Roma Domenico. L’iniziativa è dunque interamente sua e sua la scelta, noi oggi diremmo della suntuosa coreografia, un’elegante passeggiata a cavallo, volta a dissipare qualsiasi sospetto, molto più in sintonia con le abitudini familiari che non con il suo nuovo stile di vita. In secondo luogo possiamo soffermarci su questo altro “spaccato” di vita bolognese : le dame che hanno, ignare, accompagnato Diana, costernatissime, inviano a Bologna una sorta di corriere, possiamo supporre a briglia sciolta, per avvertire il parentado dello stratagemma di Diana. Improvvisamente si direbbe che il fatto non sia più solo un problema interno della famiglia, ma che riguardi l’intera città.  Vicaire parla di un “folto gruppo di parenti, amici, clienti (nel senso latino del termine), e perfino “sfaccendati e curiosi”. Il “folto gruppo”, coralmente furibondo, si dirige su Ronzano, irrompe nel monastero e strappa Diana dal suo rifugio con tale violenza e prepotenza da spezzarle una costola. “La giovane – avverte lo storico – conserverà fino alla morte i segni di quella colluttazione”. (H. VICAIRE, op.cit., p.526)
In casa sua Diana per circa un anno è costretta a letto e impedita dall’aver il benché minimo contatto con l’esterno : è segregata peggio che se fosse in clausura. Domenico ritorna da Roma, viene informato di quanto è accaduto e prova un grande dolore per Diana che non vuole assolutamente abbandonare. Nel contempo sta già avvertendo i primi dolorosi sintomi della malattia che lo condurrà alla morte : soprattutto lo affigge un’insopportabile emicrania; ma non rinuncia a studiare il modo di incontrare Diana, cosa che gli riesce perché nel frattempo è giunto a Bologna il cardinale legato Ugolino (il futuro Gregorio IX) e gli Andalò non possono chiudere la porta in faccia a Sua Eminenza. Tuttavia non si spostano da capezzale di Diana e quindi Domenico non può parlarle liberamente ed è costretto a ricorrere, in seguito, ad una corrispondenza clandestina. E’ questo l’ultimo contatto fra “padre” e “figlia”: ai primi di agosto del 1221 la situazione precipita e Domenico si spegne la sera del 6.
In quello stesso anno il capitolo generale aveva nominato priore provinciale di Lombardia, Giordano, forse della nobile famiglia dei duchi di Eberstein, ma conosciuto universalmente come Giordano di Sassonia. Nato nel 1185, pare in Vestfalia, aveva studiato all’Università di Parigi; quando nel 1219 incontra Domenico e subito dopo Reginaldo, ha già raggiunto i gradi di baccelliere in teologia e di magister artium. L’incontro con Domenico è decisivo per la sua vita : scopre “una perfetta sintonia tra il suo animo e quello del santo fondatore dei Predicatori” (A. D’AMATO, Il fascino della verità, Bologna 1991, p.11), per cui sceglie Domenico come suo confessore e direttore spirituale : questi gli suggerisce di ricevere il diaconato, il primo passo sulla via di quell’ideale di vita che Giordano è deciso a realizzare.
E’ assiduo frequentatore delle prediche parigine di Reginaldo e anche dal contatto con quest’ultimo viene riconfermato nell’adesione all’ideale di perfezione che già aveva deciso di seguire. Il suo ingresso nell’Ordine subisce tuttavia un ritardo perché Giordano è determinato a convincere il suo amico fraterno, Enrico di Maestricht a seguire il suo esempio. Enrico esita a lungo, perché ha timore di non essere capace di perseverare; Giordano insiste perché ritiene l’amico dotato di virtù che potranno fare di lui un ottimo domenicano. “E’ proprio della vera amicizia desiderare di condividere con la persona che si ama ciò che di meglio si possiede (A. D’AMATO, op. cit., p.12). Possiamo già avvertire l’importanza e il ruolo che l’amicizia avrà nella vita di Giordano. Finalmente Enrico si convince : a loro si unisce un altro compagno di studi e così sono in tre a ricevere l’abito religioso il giorno delle Ceneri, 11 febbraio del 1220; Reginaldo è morto da pochi giorni. Giordano ha “la medesima cultura, la medesima eloquenza, il medesimo prestigio nel mondo universitario”. (A. D’AMATO, op. cit., p.17) Nel maggio 1220 Giordano è a Bologna per partecipare al capitolo generale come rappresentante del convento parigini di St. Jacques : è il capitolo nel quale vengono redatte le prime costituzioni domenicane. L’anno seguente, 1221, Giordano è eletto priore della provincia di Lombardia che comprendeva allora tutta l’Italia Settentrionale, con 6 conventi; ma quando Giordano arriva a Bologna per prendere possesso del suo ufficio, Domenico è già morto. La presenza di Giordano contribuisce a rendere ancora più forti i legami della città con l’Ordine dei Predicatori, stretti da Reginaldo e rinsaldati dallo stesso Domenico. Nel 1222 a Parigi il monaco tedesco viene eletto Maestro Generale, primo successore di Domenico. Viaggiatore instancabile, dà un grande impulso alla diffusione dell’Ordine e anche al suo consolidamento. Si rivolge in particolare agli ambienti universitari verso i quali ha lo stesso fervido interesse di Domenico. Sotto di lui sono fondate ben tre cattedre universitarie e nel 1229 l’Ordine conquista la prima cattedra nell’Università di Parigi.
Tutte le iniziative di Giordano sono ad alto livello: grandi personalità gli dimostrano amicizia e ammirazione, Onorio III e Gregorio IX, Bianca di Castiglia, regina di Francia che affida ai Domenicani l’educazione di suo figlio il futuro Luigi IX; con coraggio e semplicità rimprovera Federico II per il suo comportamento ostile nei confronti della Chiesa. Per una conoscenza più approfondita di questo uomo del XIII secolo, forse il figlio più autentico di Domenico, rinviamo all’opera più volte citata del Padre D’Amato, Il fascino della verità, nella quale i vari aspetti di questa personalità sono analizzati con finezza e amore, con l’avvertenza : “Il beato è poco conosciuto nell’Ordine e forse anche meno venerato”. (A. D’AMATO, op. cit., p.7) Peccato.
In questa sede la componente di lui che ci interessa è quella che ci mostra Giordano maestro di vita spirituale : ereditata da Domenico anche la naturale propensione per il ministero femminile, Giordano dedica grandi cure alle moniali. E’ Giordano che porta a compimento la delicata operazione della fondazione del monastero di S. Agnese a Bologna e dell’entrata nell’Ordine di Diana degli Andalò.
Alla vigilia di Ognissanti del 1222 Diana era fuggita di nuovo a Ronzano; la famiglia non aveva osato ricorrere nuovamente alla violenza e aveva rispettato la sua decisione; la giovane Andalò l’aveva , come si suol dire, spuntata, a conferma della forza e della determinazione del suo carattere. Diana non serberà nessun rancore : la vedremo fortemente rattristata per una serie di lutti familiari, pur nel distacco che la clausura impone.
Giordano ottiene la stima degli Andalò e il consenso alla costruzione, una “domuncula parva”, tra porta S. Mamolo e porta Saragozza, che nell’ottava dell’Ascensione del 1223 accoglie Diana e quattro nobildonne bolognesi, più due ferraresi. Il Maestro cura prima di tutto la loro formazione, secondo lo spirito dell’Ordine domenicano e concede loro l’abito il 29 giugno del 23. Poco dopo giungono le suore del convento romano di S. Sisto e Diana e le primitive compagne sono ammesse alla professione solenne.
Del gruppo romano fa parte anche Sr. Cecilia. La Cambria, pur con i limiti di un certo tono agiografico, coglie acutamente le diversità fra le personalità delle future beate; di Diana dice : “[…] è l’anima di tutto […] il suo cuore ardeva di gratitudine, di fervore d’amore”, di Cecilia invece che “era tutta fragrante di candore e di infanzia spirituale”. (G. CAMBRIA, op. cit., p.30). Nel convento di S. Agnese Diana “vede la realizzazione dei suoi sogni e il premio delle sue lotte e dei suoi sacrifici” (G. CAMBRIA, op. cit., p.31) ; quando arrivano le suore romane più esperte, e Giordano le pone alla guida della comunità, Diana si fa da parte, accetta il ruolo dell’umile novizia, per quanto avesse, attraverso le prove sia fisiche che spirituali, conseguito una notevole maturità cui avevano contribuito in modo determinante il dialogo e la consuetudine con Reginaldo e Domenico; si fa da parte nonostante l’apporto anche materiale dato alla fondazione. Rinuncia a qualunque idea di primato, nonostante l’abitudine al comando e al primeggiare che poteva venirle dalla sua nascita e dalla precedente educazione, consapevole anzi dei pericoli che le sarebbero derivati dal mantenere permanentemente il primo posto. Facciamo parlare ancora la Cambria : “il suo amore non conosceva stanchezza, non poteva donarsi a metà. La sua scelta iniziale era continuamente sviluppata, in un’adesione volontaria, ogni giorno rinnovata con più intenso vigore”. (G. CAMBRA, op.cit., p.33).
Di fronte alla descrizione di questi tratti del carattere di Diana, vien fatto di ripensare alle righe che il Vicaire dedica nella sua biografia al ruolo che può aver esercitato nella vita di Domenico la sua ascendenza aristocratica : egli parla di “spirito di conquista cristiana”, di “senso di dedizione e di impegno personale”, di “ardimento gioioso”, di “realistica acutezza di sguardo tutta militare”, con il quale coglieva nelle varie situazioni l’essenziale; di un “tratto sicuro e signorile”, di una capacità di “muoversi a proprio agio nei confronti dei poteri costituiti”. Sono modalità di comportamento che si possono ritrovare in Diana, probabilmente non solo per i frequenti contatti con Domenico, ma anche per la sua stessa provenienza.
 Giordano ha il merito di aver voluto favorire l’inserimento giuridico delle monache nell’Ordine dei frati predicatori; Giordano “sente che realmente le monache sono parte dell’Ordine dei frati predicatori per l’identità del fine e dei valori essenziali  della loro vita”. (A: D’AMATO, op. cit., p.109) Afferma Giordano che le monache sono “partecipi anche al lavoro apostolico” partecipando “al ministero dei frati mediante la preghiera […] e quindi non solo alla medesima vita, ma anche alla medesima missione dell’Ordine.” (A. D’AMATO, op.cit., p.110)
Per vincere le resistenze dei frati Giordano si procura l’appoggio di Onorio III che invia una lettera a sostegno delle idee di Giordano sulla cura monialium con la quale ordina al Maestro Generale di prendere sotto la sua giurisdizione le suore e il monastero di S. Agnese allo stesso modo delle altre case dell’Ordine. Il tono è molto secco, ma la lettera è stata redatta su indicazioni molto circostanziate dello stesso Giordano.
Sr. A. Omedé, delle Domenicane di Asti, definisce Giordano “vero animatore della gioventù, direttore di anime elette”. (A. OMEDE’, Umanità e spiritualità nel beato Giordano di Sassonia, Roma, 1968, p.9)
Queste doti Giordano le ha esplicate al più alto grado nel suo rapporto con Diana come attesta il suo ricco epistolario con la suora bolognese : “[…] Diana gli era cara, perché lasciata a lui in eredità dall’amatissimo Padre […] Giordano la guidò per la via dell’ascesi e della conquista interiore, le fu padre, maestro, guida, amico, le insegnò […] che lo sforzo e l’impegno stesso per una vita di perfezione ha senso e valore soltanto se c’è un grande amore che li giustifica” (A. OMEDE’, op. cit., pp16-17).
Le lettere del B. Giordano sono una fonte preziosa : “Le lettere a Diana rivelano Giordano soprattutto come direttore spirituale e come scrittore e tutto questo in una maniera singolare unica nel Medio Evo […] Giordano scrive in un latino quasi classico; egli è molto in anticipo sul suo tempo, è già un umanista” (M. ARON, Lettres à la B. Diana d’Andalò, 1924, p.XV).
Attraverso queste lettere, dirette a Diana e alle suore della sua comunità noi conosciamo le preoccupazioni per la vita comune, la sete di mortificazione, la gioia e le lotte interiori di questa giovane donna ritiratasi con tutta l’anima in Cristo, noi possiamo comprendere e valutare l’eccezionalità dell’esperienza di chi riceve i consigli e i suggerimenti non di una persona cara (una madre, una sorella) in merito ad una vicenda amorosa umana, ma è guidata e indirizzata con dolcezza e fermezza nel suo rapporto d’amore con Cristo.
L’epistolario è purtroppo a senso unico perché sono andate perdute le lettere di Diana, ma noi vediamo ugualmente delinearsi la personalità della donna in modo quasi altrettanto limpido che se potessimo leggere le sue stesse parole. Un forte legame si è stabilito con tutta la comunità, non solo con Diana.
Giordano anche da lontano continua a plasmare l’ardente spirito di Diana, facendone altresì il suo portavoce presso la comunità.
Una caratteristica che viene particolarmente evidenziata dall’epistolario è il rapporto di amicizia creatosi tra i due domenicani. I diversi studiosi sono concordi nel sottolineare l’importanza di questo legame che nasce dall’incontro di due personalità eccezionali : P. Vanzan dirà che questa amicizia “è il fondamento necessario per comprendere la ricchezza e la semplicità dell’insegnamento che Giordano [ha] trasmesso a Diana e alle sue consorelle” (P. VANZAN, op.cit., p.33).
Il D’Amato, commentando una serie di lettere, conclude che “quelle di Giordano sono lettere di un santo a una santa […] sono ambedue animati da grande amore a Dio […] i loro cuori sono sempre uniti a Dio. Si comprendono così bene che sono realmente cor unum et anima una in Deo come insegna la regola di S. Agostino (A. D’AMATO, op.cit., p.100). E la Omedé a sua volta osserva : “l’amore di Dio è il solo amalgama che tiene unite le due vite e le pone sullo stesso piano, con lo stesso valore, con la stessa efficacia […]; ma accanto alla dottrina del Maestro si scopre un caldo afflato umano […] Giordano è sempre dignitoso e paterno […]. Dalle sue lettere traspare questa sua calda umanità, tutta indirizzata a beni spirituali” (A. OMEDE’, op cit., p.21).
Figlia anche in questo del suo tempo Diana dava grande importanza all’aspetto ascetico della vita religiosa ed era di esempio alle sue compagne per l’ardore delle sue mortificazioni. Giordano, riferisce la Cambria “interviene per moderare gli eccessi della sua ardente figliola” (G. CAMBRIA, op.cit.,p.33) non ama gli eccessi; né le forme esteriori di misticismo, né un ascetismo fondato su mortificazioni corporali “Egli mira decisamente alla formazione interiore […] mediante l’assiduo esercizio delle virtù cristiane […]. L’ascetismo domenicano […] non richiede necessariamente mortificazioni esteriori […]. Prudenza, moderazione, discrezione sono parole che tornano spesso nelle […] esortazioni a Diana e alle suore di S. Agnese”. (A. D’AMATO, op.cit., p.60). Citiamo passi di alcune lettere in proposito : “ Guardatevi soprattutto dagli eccessi […] così evitate con cura ogni fatica eccessiva” (Lettera XVI); “Temo che affatichiate troppo i vostri corpi e così inciampiate e non siate più in grado di camminare nelle vie del Signore” (Lettera XVIII) ; “Carissima, metti un limite alle tue penitenze” (Lettera XXII); “Non astenerti troppo dal cibo, dal bere, dal sonno; comportati con moderazione e pazienza in tutto” (Lettera XXXI); “Lottate prudentemente, mentre un po’ alla volta sottomettete la vostra carne […] non volando, ma salendo la scala della perfezione a poco a poco […], solo l’amore di Dio non conosce misura. Ma questo amore non aumenta nell’afflizione della carne, ma nei santi desideri e nelle pie meditazioni e col crescere della carità fraterna con la quale ognuna di voi ama il prossimo come se stessa (Lettera XXVII).
Questa esortazione alla moderazione costituisce un tratto particolarmente interessante della spiritualità di Giordano : viene a riconfermare il lato “classico” del suo modo di essere e di esprimersi, come la Aron sottolineava a proposito del suo latino; offre argomento valido per controbattere le posizioni di chi esasperatamente vede nel M. Evo il periodo della negazione dei diritti del corpo che, come insegna da par suo Tommaso è parte importante dello statuto ontologico dell’uomo che è quello di essere spirito incarnato; e contribuisce, insieme ad altri tratti già sottolineati, a fare di Giordano, uomo del XIII secolo, Domenicano di razza, una guida molto vicina alla nostra sensibilità agli inizi del III millennio.
Abbiamo cercato di accostarci, varcando i secoli che ci separano, alla elegante figura al centro del dipinto dalla cui contemplazione siamo partiti, per stabilire a nostra volta il legame di un’amicizia che anche per noi ha il suo fondamento e il suo amalgama nell’amore di Dio.
Ma ci sia consentito concludere con una riflessione che ci sembra importante : Diana degli Andalò, donna squisita del XIII secolo, bolognese colta e aristocratica; intorno a lei di volta in volta, suoi padri spirituali, Reginaldo, Domenico, Giordano, l’aristocrazia, la “créme” dell’Ordine nel suo momento aurorale e già radioso; un francese, uno spagnolo, un tedesco. L’Europa del tempo, l’Europa medioevale, crede nell’universalità romana e cristiana, con in più la componente germanica: “I Greci hanno scoperto che cosa è filosofia e ancora oggi […] per filosofia s’intende quel che essi hanno inteso […]. Quale che siano le differenze tra i sistemi o le scuole filosofiche […] il pensiero greco concorda nel considerare la metafisica, il cui soggetto è l’essere in quanto essere, come il problema primo, il fondamento del sapere umano in quanto tale, la scienza dei principi dell’essere universalmente validi. Di qui il dualismo [particolarmente esemplare nel platonismo] di “questo” mondo umano e naturale e dell’”altro” mondo trascendente, gerarchicamente disposti […]; l’oggettività della verità e la trascendenza dell’Essere sono i concetti essenziali della metafisica greca […]. Alla Roma classica si deve la scienza del diritto […] : anche per i Romani la legge è oggettiva [come la verità per i Greci]; anche per loro vi è dualismo tra individuo e legge a cui il primo deve sottomettersi [...]. Al Cristianesimo, unito alla religione ebraica, l’umanità deve il concetto di religione. […] il Vecchio e il Nuovo testamento non sono opera umana, ma Rivelazione di Dio agli uomini […]. Ora anche la verità cristiana è essenzialmente dualistica : Dio […] e mondo naturale e umano […] la creatura dipende nel suo essere e nel suo esistere dal suo Creatore e a Lui è orientata come a suo principio e fine ultimo. […] Quella che noi chiamiamo civiltà occidentale [o europea] risulta essenzialmente dalla sintesi del pensiero filosofico greco, dall’esperienza giuridica romana e dalla verità ebraico-cristiana : tutti e tre ne costituiscono l’essenza. (M.F. SCIACCA, L’ora di Cristo, Milano, 173, pp. 93-94-95)
L’Europa sorge dall’intridersi della cultura greca con quella ebraico-cristiana, con la romanità e infine con il germanesimo e si realizza nell’Europa occidentale, ma non vi si confina. La cultura occidentale è la risultante delle due grandi tradizioni critico-scentifica, cioè filosofica e religiosa, di cui il Medio Evo è una forma storica.
“O l’Europa è l’unità spirituale di queste due tradizioni o non è” (B. SALMONA, Occidentalismo come Anti Europa ecc., in Atti del Convegno di Chiavari, 8-10 marzo 1990, p.88).
“L’ Occidente europeo diventa cos, più che una categoria geografica, una fondamentale categoria filosofica culturale morale serbatoio dei valori costitutivi del patrimonio autentico dell’uomo e della sua intelligenza […]. L’impianto ontologico di stampo metafisico proprio della cultura occidentale […] riconosce come legittimo per l’Europa, in quanto categoria spirituale, l’apporto di culture altre (l’ebraica e l’araba) accomunate nella ferma delimitazione degli spazi della ragione autonomi rispetto a quelli della fede [pensiamo ad Alberto e a Tommaso]. Quest’ultima caratteristica (autonomia della ragione […]) fonde e legittima la laicità [non il laicismo] della cultura occidentale […]. (A. SALSA, l’Occidente europeo ecc., in Atti del Convegno di Chiavari, op. cit. pp.102-103)
I tre elementi costitutivi dell’Europa e del Medio Evo romanità cristianesimo germanesimo li ritroviamo in Reginaldo, il francese, in Domenico lo spagnolo, in Giordano il tedesco, riuniti intorno a una giovane donna che coniuga in sé l’eredità aristocratica alto-medioevale, l’opulenza dell’ormai matura civiltà comunale che ella però supera con la vocazione domenicana che la invita alla scienza e alla povertà volontaria, E già si intravedono Alberto e Tommaso. Parafrasando, “o l’Europa è ancora categoria filosofica, culturale, morale o non è”.
Diana muore il 10 giugno 1236. Giordano morirà in un naufragio, di ritorno dalla Terrasanta il 13 febbraio 1237.
Nell’autunno del 1219 Domenico, accompagnato da tre frati, raggiunge la Curia pontificia a Viterbo per impetrare da Papa Onorio III privilegi e commendatizie per l’Ordine che stava muovendo appena i primi passi e per ottenere, magari, anche una sede stabile per i frati a Roma.
Onorio dona a Domenico la piccola chiesa di S. Sisto, una basilica stazionale del V secolo che, col passare del tempo, era andata via via decadendo : il Papa l’aveva già individuata come sede di un monastero femminile che potesse accogliere e raccogliere le religiose di altri monasteri romani in decadenza o in rovina : a questo scopo aveva dato l’avvio a lavori di ristrutturazione e recupero. S. Sisto doveva accogliere una comunità femminile, non un convento maschile e il monastero doveva perciò precedere l’insediamento maschile. Come a Prouille la fondazione, che coinvolge pienamente Domenico, è promossa da sollecitudine nei confronti di donne comunque in difficoltà : un esempio di quella “compassione” da cui siamo nate. Onorio conosce precedenti significativi di conventi ‘misti’, nei quali il ministero dei frati era appoggiato a case femminili; può accadere anche a Roma e così l’Ordine avrà una sede anche al centro della Chiesa.
Il 27 dicembre del ‘19 Domenico e i suoi tre compagni si stabiliscono momentaneamente a S. Sisto, dove tra il ‘19 e il ‘21 prosegue, sia pur lentamente, con alterne vicende la costruzione del monastero. Il 28 febbraio 1221 le suore sono accolte a S. Sisto : non tutte insieme, ma in momenti successivi della stessa giornata e a tutte viene dato l’abito domenicano; fanno professione nelle mani del Fondatore.
Il padre Pietro Lippini o.p. commenta . “Si chiude così una modesta pagina nella storia della Chiesa romana; si apre un capitolo glorioso nella storia dell’Ordine domenicano e della Chiesa universale”. (P. LIPPINI o.p., S. Domenico visto dai suoi contemporanei, Ed. Studio Domenicano, Bologna, 1982 p.168)
Essendo il monastero incapace ormai di ospitare la comunità delle Suore contemporaneamente a quella dei Frati, Domenico, con uno dei suoi colpi d’occhio di aquila, chiede ad Onorio di fare dono all’Ordine di una fortezza esistente sull’Aventino, di proprietà della famiglia del Papa, i Savelli, fortezza in cui era incorporata la famosa basilica di S. Sabina, anch’essa del V secolo. Onorio acconsente a questa ulteriore donazione. S. Sabina diventerà e lo è ancora la casa generalizia dell’Ordine dei Predicatori:
 Giungendo a Roma nel 1219, Domenico non poteva immaginare che una delle suore del futuro monastero di S. Sisto avrebbe, dopo molti anni, trasmesso il racconto di quanto il Santo aveva operato miracolosamente a Roma in quegli anni di fondazione, tramandando altresì la descrizione della sua fisionomia, un autentico ritratto.
La suora in questione è la su orina soave che nel dipinto del coro di S. Agnese è ritratta alla destra di Diana degli Andalò e occupa quindi la parte sinistra del quadro.
Come le sue compagne reca in mano un giglio ma, mentre le altre due lo tengono accostato alla figura, lei sembra impugnarlo quasi baldanzosamente, con un effetto lievemente scherzoso; l’altra mano, aperta, con la palma in su, rivolta verso Diana, bilancia la testolina leggermente inclinata di lato. Diana, abbiamo detto, ha una posa solenne, anche se aggraziata, come bien si conviene ai suoi natali, e alla sua indole; Cecilia suggerisce invece un’idea di estrema giovinezza e freschezza, che deve aver conservato e portato con sé nella sua lunga vita se, ancora a 70 e passa anni, sarà in grado di dettare ricordi così vividi e avvincenti.
Anche Cecilia proviene da una famiglia aristocratica (i Cesarini o forse i Frangipani), ma la sua personalità appare più “sommessa” di quella di Diana; di quest’ultima abbiamo sentito esaltare intelligenza e cultura; “donna del suo tempo [che] non aveva complessi di sorta”, Diana incarna mirabilmente la mutata consapevolezza di sé delle donne del XIII secolo; Cecilia vivrà una vita più nascosta : obbediente lascia Roma, lascia il suo S. Sisto alla cui fondazione aveva assistito e partecipato e va a Bologna per entrare a far parte della nuova comunità fondata da Diana, alla quale apparterrà fino al 1290, anno della sua morte. Un’esistenza trascorsa assorta nel ricordo dell’avvenimento più indimenticabile della sua vita : appena cinque mesi prima della morte di Domenico, a soli 17 anni aveva ricevuto l’abito dalle sue stesse mani.
Diana, attraverso le sue eccezionali amicizie ci appare, in un certo senso, proiettata su uno sfondo storico ben preciso e di vasta portata, anche se essa pure conduce la vita ritirata e silenziosa di una claustrale del XIII secolo.
Cecilia, vive nel nuovo monastero “una lunga vita santamente vissuta nel governo e nell’edificazione della sua nuova comunità (P. LIPPINI, op. cit., p.168). Fu infatti probabilmente una delle prime priore, forse la prima. Non viene introdotta nella spiritualità dell’Ordine da un Reginaldo e se anche Domenico, a S. Sisto, è spesso alla sera dolcissimo istruttore delle suore, soprattutto per quanto concerne la Regola, Cecilia non ha con il Santo Padre quel rapporto esclusivo che fa di Diana “la figlia predilette”; e nemmeno è accompagnata dalla voce amica di un Giordano di Sassonia che continua con Diana l’opera iniziata dai primi due. Cecilia è piuttosto un punto di riferimento per le sue consorelle e , alla grata del parlatorio, per i Padri che vanno a Bologna per i Capitoli e per venerare le spoglie del Fondatore.
Tra il 1270 e l’80 Cecilia detta a Sr. Angelica”a onore e lode del Signor nostro Gesù Cristo e del Beato Padre […] Domenico e a consolazione dei Frati”, il racconto dei miracoli “operati a Roma” dal Beato stesso; ella si trova ad essere una delle ultime, forse l’ultima esponente della prima generazione domenicana. Il suo racconto ha una grande diffusione e costituirà un riferimento obbligato per le biografie successive di S. Domenico. Il manoscritto, conservato amorevolmente nel monastero di S. Agnese, per una serie di peripezie fu accolto nella Biblioteca del Convento di S. Domenico a Bologna : lì se ne persero le tracce. Oggi risulta introvabile : per fortuna ne esistono alcune copie.
Secondo P. Lippini “Nessuno storico dubita della autenticità dell’opera di Sr. Cecilia. La semplicità dello stile, la minuziosità delle descrizioni, la preoccupazione costante di enumerare i testimoni dei fatti, la perspicacia tutta femminile di certe osservazioni […] confermano [che il racconto] è dovuto […] a una teste intelligente e attenta. E la figura fisica e morale del Santo Padre Domenico, il suo amore per il bene materiale e spirituale delle figlie spicca in questa narrazione come solo il cuore e la mente di una donna potevano cogliere”. (P: LIPPINI, op.cit., pp172-173)
Possono esservi, anzi senz’altro vi sono errori attribuibili al fatto che la memoria è indebolita per l’età e che l’autrice materiale, Sr. Angelica (comunque benemerita), ha evidentemente simpatia per racconti leggendari che alterano i fatti : così taluni sfiorano addirittura il ridicolo e il grottesco e in altri il meraviglioso nuoce alla verosimiglianza. Tuttavia sia Lippini che Vicaire (nomi tra i più autorevoli) invitano a non scartare la narrazione di Cecilia; essa – conclude Padre Lippini – “rimane un monumento di pietà filiale e di amorosa esaltazione del Padre che ella vede ormai aureolato di gloria e che intende ulteriormente glorificare”. (P. LIPPINI, op.cit., p.175)
Della relazione M. Giovanna Cambria dirà che è “tutta fragrante di candore e di infanzia spirituale” e questi sono tratti distintivi anche della personalità della claustrale insieme al “candido fervore” alla prudenza, all’equilibrio.
La devozione e l’amore filiale per Domenico si avvertono particolarmente in taluni dei racconti : ad esempio nei miracoli dei pani e del vino e in quello del “vino aumentato” che sgorga da un boccale inesauribile. Ci mostrano un Domenico sereno, calato nella quotidianità, compassionevole e attento ai bisogni, alle necessità, ai dolori anche strazianti delle persone che lo circondano, che egli ben conosce. In particolare, proprio l’ultimo fatto miracoloso citato presenta il “venerabile Padre” la cui “costante consuetudine [era] passare tutta la giornata a bene delle anime o predicando […], o confessando, o dedicandosi ad altre opere di carità. Alla sera invece veniva dalle Suore e alla presenza dei Frati, teneva loro un fervorino o una predica, istruendole sulla Regola dato che non avevano altro istruttore all’infuori di lui” (P. LIPPINI, op. cit., p.197). E’ il Domenico di cui il Vicaire dice che “parla, sia a tu per tu che in gruppo, ai suoi frati e alle suore […] a Roma […] a Bologna, a Tolosa, a Prouille […]. L’intima convivenza quotidiana, alimentata dal reciproco aiuto […] trasforma rapidamente la familiarità in amicizia. […] sentimento già contenuto nell’affettuosa accoglienza che Domenico riserva a tutti quelli che incontra. […] l’amicizia sorge sulla sua vita come un’aurora crescente. Da Osma Domenico non è più un solitario. Da Prouille ha la sua famiglia. Da Tolosa ha dei fratelli che gli sono pure figli. […] quanto del proprio cuore ha dato ai suoi frati e alle sue suore […] si riflette su di lui, sotto forma di attaccamento filiale. […] E alla sera quando si arresta il cammino […] e la famiglia si raduna, anch’egli conosce la distensione e sa far distendere gli altri”. (H VICAIRE o.p., Storia di S. Domenico, trad. it., Ed. Paoline, Aba (Cuneo) 1959, pp. 503 segg.) E il Vicaire qui si ricollega al racconto di Cecilia : quella sera le suore non aspettavano più il Padre e si erano ritirate in dormitorio; ma improvvisamente i frati suonano la campanella che chiama in parlatorio e là trovano Domenico già seduto con i suoi frati “Egli fece allora una lunga istruzione […] dopo disse “Sarebbe bene figlioli prendere qualcosa di fresco.” E’ lo stesso Domenico che in altra occasione, in un’altra comunità porta in dono alle suore una posata di legno. Qui fa portare un boccale colmo fino all’orlo di vino e da quel boccale il vino sgorga finché tutti i frati e tutte le suore hanno bevuto. “E il beato padre ripeteva loro : Bevete a vostro piacimento, figliole”. Altrove il P. Vicaire sottolinea “Domenico ebbe indubbiamente una grazia speciale per il ministero femminile” (H. VICAIRE, op.cit., p.209).
L’attaccamento filiale di cui parlava lo storico si avverte in modo inequivocabile e commovente nel ritratto tracciato da Cecilia sulla scorta dei suoi ricordi di ragazzina : “Il beato Domenico […] era di media statura ed esile di corpo : aveva un bel viso e la carnagione un tantino rosea: i capelli e la barba tendevano al rosso; gli occhi erano belli […] aveva lunghe e belle mani e una voce armoniosa “. (da I miracoli del Beato Domenico in P. LIPPINI, op.cit., p.221) Domenico aveva allora un’età compresa tra i quarantotto e i cinquanta anni (non si conosce la sua esatta data di nascita : non prima del 1171, comunque). Cecilia traccia questo vivido schizzo : è l’unica di coloro che l’hanno conosciuto personalmente che lascia una descrizione del suo aspetto. Da lei sappiamo che aveva un bel viso, degli occhi belli, belle aristocratiche mani e una voce armoniosa, qualità queste ultime due, particolarmente e felicemente adatta ad un grande predicatore che unisce al gestire di belle espressive mani il fascino di una voce profonda, non stridula. A distanza di tanti anni Cecilia ci appare più disposta a descrivercelo come era quando, diciassettenne, certamente emozionata e commossa, aveva ricevuto dalle sue mani l’abito che segnava l’ingresso nella vita monastica, che non a idealizzarlo come per un ritratto ufficiale. Così, contrariamente a gran parte dell’iconografia tradizionale che ci presenta il classico tipo dell’hidalgo spagnolo, scuro di carnagione e di capelli (cfr. per es. il S. Domenico di Tiziano della Galleria Borghese di Roma, un indiscutibile capolavoro), la beata Cecilia ci parla di una carnagione rosea, di capelli e di barba tendenti al rosso. Bernanos, nella celebre, piccola biografia di Domenico aggiunge di sua iniziativa “occhi celesti” e questi tocchi coloristici potrebbero accordarsi con un’ascendenza visigota quale spesso si riscontra in Spagnoli del Centro-Nord come era appunto Domenico di Guzman, originario dell’alta valle del Duero, sui confini settentrionali della Vecchia Castiglia. Il P. Lippini sottolinea che la descrizione di Sr. Cecilia “trova un meraviglioso riscontro nella ricostruzione scientifica [fatta a Bologna] negli anni 1943-46 in occasione della traslazione delle reliquie del Santo imposta dagli eventi bellici” (P. LIPPINI, op.cit., p.221).
Nella descrizione fisica sono inseriti pochi particolari che alludono, con una gentilezza e un riserbo tutti femminili, a tratti del carattere “Sulla sua fronte e di tra le ciglia irradiava un certo splendore che a tutti ispirava rispetto e simpatia”. Questa notazione ben si concilia con quanto attesta il beato Giordano “facilmente si attirava l’amore di tutti” mentre il Padre A. D’Amato parla di un volto sempre “ilare” e “illuminato” dalla fede. Altri usano espressioni come “equilibratissimo, paziente, benevolo, gioioso, pronto a consolare. Il Vicaire parla di un “alone di cordialità” e nel ricordo Cecilia colloca, se così si può dire, quello splendore sulla fronte e tra le ciglia. Un ritratto, noi diremmo, parlante che Cecilia completa con un rapidissimo sommesso accenno a uno dei tratti salienti del carisma di Domenico : la sua capacità di com-patire. Dice Cecilia che la serenità che sempre improntava di sé il viso di Domenico, si incrinava solo quando era “addolorato per qualche angustia del prossimo”.
Reginaldo, Diana, Giordano, Cecilia : è la meravigliosa fioritura (arricchita di tanti altri nomi), della prima generazione domenicana; momento magico nella storia di quest’Ordine amato e odiato come forse nessun altro, figlio di quelle che Roquebert ha, con felice sintesi, definite “l’intelligenza folgorante e la volontà prodigiosa” di un uomo.