L’INNO ALLA CARITA’ : ESCATOLOGIA O STORIA?

 

Più ci si addentra nella confidenza con San Paolo, più si resta ammirati della sua incrollabile fede in Cristo, del suo instancabile zelo missionario, della sua completa dedizione all'apostolato, della sua forza attinta nella preghiera, nella contemplazione del mistero di Cristo, nella comunione ecclesiale, nella grazia dello Spirito Santo. Leggendo le sue lettere, ascoltando in esse la proclamazione del suo Vangelo, vi scorgiamo anche certamente i suoi sentimenti e la sua coscienza, ma molto più spesso si avvertono uno slancio e un  ardore provocati da un amore ultraterreno, e la configurazione a Cristo dell’Apostolo diviene quasi percepibile: tutto ciò che è suo è ormai di Cristo, è consacrato a Lui e alla missione da Lui affidatagli. Non è più San Paolo che vive, ma Cristo in lui.
Qual è la forza di Paolo, da dove attinge quella energia divina che gli consente un tale grado di conformazione a Cristo? È lui stesso a risponderci, con grande semplicità: "L'amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro" (2Cor 5,14-15). La forza di Paolo è dunque l’amore, e la carità è la sua conformazione a Cristo.
Dopo questo preambolo, vorrei iniziare .. dalla fine, mi permettete questo gioco di parole, intendo semplicemente questo : propongo un pensiero in cima alla nostra meditazione, una riflessione su escatologia e storia, per giungere a presentare una visione del nostro agire e operare nell’ottica del discorso che ci siamo proposti intorno a quel che viene comunemente definito “inno alla carità” dell’Apostolo Paolo.
Noi distinguiamo (contrassegnare in modo diverso, quindi separare) per abitudine mentale, l’escatologia (dal greco eschatos = è la dottrina sulle cose ultime; la visione, la riflessione sul destino ultimo dell’uomo e del mondo, lo sapete tutti bene, lo richiamo soltanto per chiarezza) dalla storia, siamo abituati a dire che esiste il presente (la storia, il tempo) ed esiste il futuro salvifico (escatologia), qui la valle di lacrime, poi, di là, la Gerusalemme celeste; in altre parole siamo stati educati ad impegnarci nella storia secondo l’etica e la morale, che vanno praticate nel di qua, ma al contempo tutto (giudizio, premio, vita beata) è poi rinviato al Paradiso, alla escatologia. Questa visione è ovviamente incompleta, e, per certi versi anche pericolosa. La rivelazione ebraico-cristiana, quella cristiana soprattutto, è fondata sull’incarnazione, e l’incarnazione che cos’è se non la concretezza della storia? La nostra realtà. La storia nel cristianesimo non viene nebulizzata per via della rivelazione, rimane con tutto il suo peso, il suo limite anche, ma, questo è essenziale, è irradiata e attraversata dall’eterno : all’interno del nostro presente c’è gia il seme dell’infinito.
Se abbiamo ben chiaro questo concetto, la prospettiva del nostro presente cambia, e il nostro impegno nel tempo non  è più per il premio, per il dopo, ma perché è vita, è il bene, adesso e per sempre. Lo dice bene Mons. Ravasi “Noi siamo al tempo stesso limitati, caduchi, mortali eppure anche eterni e salvati : già dentro di noi possediamo la filiazione divina. San Paolo, afferma nel capitolo 8 della Lettera ai Romani, impiegando l’immagine del parto, che il mondo stesso sente che dentro di sé ha già la creatura che deve essere partorita (geme e soffre per le doglie del parto..). Questa creatura è la redenzione dei figli di Dio : l’escatologia è l’eternità che è già in noi. Ed è proprio in Cristo che consuma questo inscindibile intreccio tra storia ed eterno, finito ed infinito, relativo ed assoluto”
San Tommaso d’Aquino, secoli addietro, illustrava lo stesso concetto da un altro punto di vista : 
“…la legge dell’amore divino produce nel¬l’uomo quattro effetti molto desiderabili. In primo luogo genera in lui la vita spirituale. E’ noto in¬fatti che per sua natura l’amato è nell’amante. E perciò chi ama Dio, lo possiede in sé medesimo: “Chi sta nell’amore sta in Dio e Dio sta in lui” (1 Gv 4, 16). E’ pure la legge dell’amore, che l’aman¬te venga trasformato nell’amato. Se amiamo il Si¬gnore, diventiamo anche noi divini: “Chi si unisce al Signore, diventa un solo spirito con lui ” (1 Cor 6, 17). A detta di sant’Agostino, “come l’anima è la vita del corpo, così Dio è la vita dell’anima ”. L’anima perciò agisce in maniera virtuosa e per¬fetta quando opera per mezzo della carità, me¬diante la quale Dio dimora in essa …. Se perciò qualcuno pos¬sedesse tutti i doni dello Spirito Santo, ma non avesse la carità, non avrebbe in sé la vita. Si tratti pure del dono delle lingue o del dono della fede o di qualsiasi altro dono: senza la carità essi non conferiscono la vita.” Qui San Tommaso si rifà chiaramente a San Paolo, il quale, proprio trattando dei doni distribuiti liberamente dallo Spirito, canta il celeberrimo inno alla carità che commentiamo oggi come la «via migliore di tutte» (1Cor 12,31), la «virtù più grande» il «vincolo della perfezione».
Primo frutto dello Spirito è dunque l’amore ed è anche il generatore di comunione all’interno della Chiesa. L’unico Spirito dona a ciascuno i carismi e ministeri diversi, ma sempre per la utilità comune delle membra di uno stesso corpo, quello di Cristo (1Cor 12, 1-31), lo dice Paolo nei versetti che precedono immediatamente l’ inno :“Vi sono diversi doni, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono vari modi di servire, ma uno solo è il Signore. Vi sono molti tipi di attività, ma chi muove tutti all'azione è sempre lo stesso Dio. In ciascuno, lo Spirito si manifesta in modo diverso, ma sempre per il bene comune”. Mons. Tonino Bello, in una sua una omelia, spiega con grande semplicità e forza come é il mio unico sangue che irrora e dà vita al mio braccio, alla mia testa, al mio piede, a tutti i miei organi, a tutte le mie membra.
La vita che Paolo ci propone al capitolo 13 della 1° Corinzi, nell’inno all’amore, non é una filosofia esistenziale che potrebbe aiutarci a risolvere i nostri problemi quotidiani, né un atteggiamento reverenziale verso la divinità, magari per placarne le ire, ma piuttosto un cambiamento radicale di valori, in aperto conflitto con i valori di questo mondo in cui prevale anzitutto l'egoismo e la sopraffazione del più forte sul più debole.
Di più la caratteristica prima dell’amore di agàpe, che è la parola greca usata da Paolo (altri due termini usavano i greci per la nostra parola amore : eros e philia)  è quella della gratuità: qui si ama senza interesse alcuno, senza aspettarsi ricompensa, o riconoscimento, o contraccambio, si vuole il bene per il bene. “Gratis” si ama. In greco, “gratis” – “grazia”, si dice “chàris”, da qui la parola latina “caritas”: carità.
L’agàpe (l’amore) del Padre si è incarnata nel Figlio, si è fatta storia, parola, gesto. Così, l’agàpe si esprime nella totalità dell’essere dell’uomo e delle sue molteplici e costitutive dimensioni d’esistenza; si mostra nella parola, si traduce nel gesto, si edifica nella struttura del rapporto sociale.
 Con la forza dolce della sua prosa ritmata, l’apostolo mette in luce in primo luogo il primato detenuto dalla carità sulle virtù umane e religiose (vv 1-3): cultura e doti mistiche; gli stessi tre doni come la profezia, la scienza («gnosis»), la fede che trasporta anche le montagne; perfino lo spogliarsi dei propri beni e l’eroismo di chi sacrifica la vita del corpo; tutto ciò, senza la carità, è decisamente il vuoto del nulla, rimbombo di un gong, zero assoluto, vano spettacolo.
Adesso vorrei rileggere con voi questi celebri versetti e dopo questa lettura corale, prima della pausa per la riflessione, dirò ancora due cose per completare la prima parte della nostra meditazione Vorrei però rileggere l’inno alla luce di un criterio di interpretazione semplice e sublime, suggeritoci dallo stesso Apostolo. Noi infatti scorgiamo nelle parole di San Paolo quella carità che egli stesso vive in prima persona; ma Paolo non descrive la carità sulla base dei suoi pensieri e delle sue opinioni. Le sue parole, piuttosto, “sono il pennello con cui egli tratteggia sulla carta il volto di Cristo”; ogni tratto impresso dalle sue parole è la contemplazione della carità che San Paolo vede realizzata in Cristo.
Rileggiamo dunque l'inno alla carità in chiave cristologica, con il grande desiderio che queste parole siano tradotte nel linguaggio della testimonianza nella nostra vita. Soprattutto, in questa preparazione quaresimale alla Santa Pasqua, vediamo come le parole dell'inno alla carità di San Paolo trovino la loro spiegazione esemplare nella carità di Cristo testimoniata dal cenacolo alla croce, laddove il suo amore si compie "fino alla fine".

 

La seconda parte dell’inno - che per la precisione inizia nel v. 4 – dice Mons. Ravasi che è simile a un fiore i cui petali sono altrettante qualità dell’amore-agàpe: magnanimità, bontà, umiltà, disinteresse, generosità, rispetto, benignità, perdono, giustizia, verità, tolleranza, costanza… E’ il corteo delle virtù che accompagnano l’amore. Se l’amore si spegnesse, le virtù umane e religiose si eclisserebbero.
La nuova traduzione italiana della Sacra Scrittura, la dove si legge "la carità è paziente" con più precisa corrispondenza al testo greco, traduce ora invece "la carità è magnanima". San Paolo cioè spiega che la carità è "di animo grande". È intesa così l'idea dell'amore che riesce ad "abbracciare" e "com-prendere" tutto, dell'amore che è così "grande" da accogliere e trovare posto in sé per ogni cosa. Dentro il cuore che ama, dentro la carità, c'è posto per tutti.
E’ benevola la carità : la perfetta manifestazione della benevolenza è Cristo sulla croce. Dall'alto della croce, quando tutto il bene voluto dal Padre è compiuto, Cristo continua a manifestare la sua volontà di bene verso gli uomini, perdonando tutti. Guardando Cristo in croce poi, il cristiano impara come estirpare dal suo cuore ogni radice di invidia o di gelosia. La sua testimonianza smaschera nella nostra coscienza ogni possibile sentimento di invidia. La preghiera perché il nostro cuore ne sia completamente libero è un semplice e insostituibile progresso nella carità.
Dare gloria a Dio per ogni suo dono, e non vantarsene come se fosse nostro, permette di portare a frutto la sua grazia in noi. È responsabilità. È dovere di giustizia, perché si tratta di riconoscere a Dio ciò che è di Dio.
Ogni impegno posto per acquisire un più fermo dominio di sé, (per non adirarsi) per aggiungere una conquista nella prudenza, nella giustizia, nella fortezza e nella temperanza, è un passo in avanti nella carità, per il bene nostro e per un servizio verso il prossimo che sia di reale aiuto alla sua crescita umana e spirituale.
E ancora, la gratuità, il dono disinteressato : parafrasando le parole di una pubblicità di un cioccolato si potrebbe affermare : se non è gratis, ma perché lo chiami dono. Carità e gratuità vanno di pari passo. La fonte ispiratrice della solidarietà cristiana è certamente Dio: tutta la storia della salvezza ci dice che Dio è carità. Tratto peculiare della carità cristiana, paolina in primo luogo, come detto prima, è la gratuità che va oltre ogni misura. Scrive sempre san Paolo ai Romani:”Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; [...] ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi". Gratis.
Da ultimo (vv 8-12), Paolo assicura che «la carità non avrà mai fine» (v. 8), mentre le altre virtù svaniranno con la raggiunta conoscenza perfetta, quando saremo «faccia a faccia», con Dio.